Impossibile muoversi a Trieste oggi e non imbattersi almeno in un luogo che richiama la ricchezza della sua letteratura, a partire dai segni più manifesti, quelle pensierose statue di scrittori che si confondono con i passanti, sbucando all’improvviso nelle piazze e nelle vie.
Incastonata tra gli altopiani carsici e il mare, per la sua posizione Trieste è da sempre stata città di frontiera, mediatrice tra il mondo mediterraneo e quello mitteleuropeo, il quale ha lasciato tracce indelebili come la tradizione dei caffè letterari, luoghi di confronto e maturazione di una coscienza politica e letteraria. Ciò che rende questa città peculiare è proprio il costante confronto con l’alterità, da sempre al centro della storia e della quotidianità triestina. Non solo incontro di culture e religioni, ma anche la commistione di lingue, un aspetto che senz’altro ha contribuito a esercitare fascino sul giovane James Joyce, che la scelse come città adottiva.
Da qualche mese è uscito in libreria un prezioso testo che scandaglia a fondo l’anima letteraria della città: Trieste di carta, scritto da Gianni Cimador e edito da Il Palindromo, una guida letteraria che si aggiunge alla collana Le città di carta della casa editrice palermitana.
È un viaggio nell’anima d’inchiostro della città, una guida con cui si entra e si esce dai caffè “vitali e sanguigni” di Claudio Magris, si attraversano i giardini pubblici con Italo Svevo, ci si affaccia sui moli ventosi con Fulvio Tomizza e ci si inerpica nei vicoli acclivi con Umberto Saba. Gli autori citati sono veramente tanti, da Scipio Slataper, Giani Stuparich, Bobi Bazlen, Anita Pittoni, fino ai contemporanei Paolo Rumiz e Mauro Covacich. Ma come ciascun libro della collana Le città di carta, la mappa pieghevole ed estraibile che si trova allegata al libro ci offre un valido strumento per orientarci e porre l’attenzione sui luoghi chiave della letteratura triestina.
Partiamo dunque con l’intervista a Gianni Cimador, autore di Trieste di carta.
1) Quanto le caratteristiche ambientali e morfologiche di Trieste – la sua natura eterogenea, l’esposizione al mare e agli elementi atmosferici, il Carso -, si fanno interpreti di stati d’animo e si riflettono nella letteratura triestina?
Quello di Trieste è un “paesaggio di limite”, sospeso tra mondo continentale e mondo mediterraneo, Carso e mare. Spazi molto diversi, e con essi anche tempi altrettanto eterogenei, scivolano uno nell’altro, si contaminano senza soluzione di continuità, provocando continui cambiamenti di percezione e quindi la necessità di ridefinire sempre il senso di ciò che vediamo: tutto ci sembra sfuggente, instabile.
Livio Poldini ha definito questo mondo di confine una “soglia biogeografica”, dove l’Europa orientale e i Balcani trovano il loro sbocco sul golfo. È uno spazio “in-between”, nel quale si incontrano e si scontrano dimensioni primordiali e totalizzanti: mi piace pensare a Trieste come alla “città degli elementi”, non solo naturali (Acqua, Terra, Aria, Fuoco), perché è una sintesi, sempre precaria, di molteplici identità che si sovrappongono, ma nello stesso tempo un rifugio per le diversità naturali e umane.
La geologia “impervia e incostante” mette sempre in discussione i confini effimeri tracciati dalla Politica, anche le lingue si mescolano.
L’incontro tra l’elemento nordico, più ruvido e individualista, e l’elemento latino, più solare e socievole, può spiegare una certa inquietudine dei triestini e degli scrittori della città, che riflettono la varietà ambientale, assorbita quasi osmoticamente.
Anche camminare per Trieste significa salire e scendere in continuazione, un movimento che rende precaria ogni identificazione e che riproduce il ritmo discontinuo del pensiero: bisogna essere sempre aperti alle sorprese.
Paolo Rumiz scrive che “Trieste piace per i suoi contrasti: per la sua aria compassata e disinibita, il suo cosmopolitismo inconsapevole e trepidamente familiare, la sapienza congenita e insicura della sua gente, la mutabilità del suo cielo e dei venti che la premono da ogni lato, ora investendola di una cruda e astratta luce artica, ora riconsegnandola al calore aromatico delle altre città di mare del Mediterraneo”.
È questo contesto mutevole come i suoi venti e il suo cielo a ricordarci continuamente che dobbiamo relativizzare ogni appartenenza troppo rigida e vincolante: dai percorsi geometrici della città in un attimo possiamo raggiungere il bosco o gli spazi aperti del mare, immergerci in una Wilderness che è dietro l’angolo, a portata di mano, e dove è possibile ritrovare sé stessi. Per questo Trieste può diventare uno spazio del sogno, del libero vagabondare dell’immaginazione: la sua essenza elude tutte le classificazioni, è enigmatica, indecisa e moltiplicata, piena di contrasti che la letteratura tenta di ricomporre. Tra il Carso e il mare si aprono prospettive molto ampie, orizzonti smisurati che ci stimolano a valicare i confini e a esplorare la nostra identità più profonda.
2) Penso alla Firenze letteraria, in cui ricorrono frequentemente episodi legati alla Resistenza; alla Torino letteraria, che respira il clima socio culturale attorno agli scioperi e ai quartieri operai della Fiat, o alla Milano letteraria che si confronta con la crescita economica del dopoguerra e il conseguente impatto sul tessuto urbano. Ci sono alcuni temi ricorrenti o eventi storici che emergono dalle opere della Trieste di carta?
Per molti decenni Trieste è stata una città poco conosciuta nel resto d’Italia, sebbene la sua letteratura costituisca quasi un genere a sé e venga studiata e amata non solo nelle università italiane ma in tutto il mondo. A Roma, nel 2006, una signora mi ha chiesto se Trieste fosse in Jugoslavia, e credo che questa percezione indefinita della città fosse allora diffusa. Negli ultimi dieci anni c’è stato un boom turistico, anche perché siamo sulle rotte delle vacanze in Croazia. Sicuramente oggi molti italiani hanno un’idea più precisa della città e la conoscono meglio. Contemporaneamente, si è sviluppata nella città una maggiore consapevolezza delle sue potenzialità turistiche.
Anche grazie a Claudio Magris, nell’immaginario collettivo Trieste è soprattutto quella del “mito mitteleuropeo”: è una città che ancora oggi viene identificata con il suo glorioso passato imperiale, quando era il principale porto dell’Impero austro-ungarico, una sorta di “alter ego” di Vienna, come dimostra anche la sua architettura, unica rispetto a quella delle altre città italiane.
Dal punto di vista culturale, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, Trieste è stata un centro della modernità: James Joyce lo aveva capito benissimo ed è proprio qui che inizia a scrivere l’Ulysses. Per lo scrittore irlandese Trieste è la “città immediata” che gli ha consentito di raggiungere la maturità, la “porta d’Oriente”, dove la presenza di diverse culture produce una grande vitalità intellettuale.
Anche a Trieste, come a Vienna, si respira la “cultura della crisi” e si leggono gli autori tedeschi in lingua originale: Edoardo Weiss è uno tra i primi psicanalisti di formazione freudiana in Italia e La coscienza di Zeno è l’espressione di quella cultura.
Il “mito asburgico” è stato sicuramente una reazione alla delusione nei confronti dell’Italia che non ha saputo capire il dramma di Trieste alla fine del secondo conflitto mondiale e il trasporto sentimentale che una città di confine nutre verso la sua Patria ideale, perché si sente minacciata e quindi idealizza l’italianità con un romanticismo anomalo: l’eclettismo della città, l’idea di una felicità perduta e la dissociazione tra la vita reale e ciò che si vorrebbe essere hanno determinato una sorta di cortocircuito storico, per cui scrittrici come Jan Morris e altri hanno la sensazione di trovarsi in un “non luogo”. Sembrano sopravvivere i fantasmi della vecchia Austria, il suo lirismo visionario, un mondo sospeso tra realtà e sogno, che affascina e, nello stesso tempo, risulta straniante.
La dimensione mitteleuropea è quella che probabilmente definisce meglio a Trieste e nella quale possiamo vedere un progetto ancora ricco di potenzialità per il Futuro: la città continuerà sicuramente a essere un “cantiere” plurinazionale, un “melting pot”, e potrà di nuovo avere un ruolo centrale se non negherà nessuna delle sue diverse anime, se terrà vivo il cosmopolitismo che la caratterizzava nel periodo imperiale. In questo senso, la perifericità di Trieste diventa una risorsa per tutta la comunità nazionale: ce lo ha spiegato bene, tra gli altri, Fulvio Tomizza.
3) Tra fine Ottocento e inizio Novecento in varie città italiane i caffè letterari sono stati fondamentali luoghi di scambio e confronto. A Trieste più che in altre città sembrano aver rivestito un ruolo fondamentale per la coscienza letteraria ma anche politica e sociale. Quanto sono stati determinanti per il fervore culturale novecentesco triestino? La loro presenza così numerosa potrebbe essere un’eredità di altre città mitteleuropee come Vienna e Budapest?
Nel Complesso dell’Imperatore di Carolus Cergoly, ambientato negli ultimi anni della dominazione asburgica, i Caffè di Trieste sono il simbolo di un mondo spettacolare, dove tutto viene amplificato e trasfigurato come in un’operetta. Destino commerciale e destino culturale erano strettamente intrecciati: a Trieste veniva fissato in Borsa il prezzo internazionale del caffè, nei Caffè si facevano affari, si esibiva il prestigio sociale, si intrecciavano relazioni con persone di tutto il mondo.
Soprattutto nei Caffè del Borgo Teresiano si esprimeva la vitalità economica della città: oltre al Tommaseo e al Caffè Stella Polare, dove scriveva Joyce, o al Flora e al Miramar, più simili a quelli della Ringstrasse di Vienna, erano rinomati il Griot, il Bizantino, il Murat, l’Adriatico. L’identità della città è un Giano bifronte: Apollo e Mercurio, cultura e affari.
Certamente, come a Vienna, Praga e Budapest, anche a Trieste è stato il mondo ebraico a stimolare l’effervescenza commerciale e culturale della città, e ad improntarne un certo spirito mercantile, pratico, diffidente a volte nei confronti di chi si dedicava alla scrittura, sintomo di eccessiva riflessione e di passività di carattere: Italo Svevo per buona parte della sua vita coltivò la sua passione letteraria quasi come un vizio, in segreto, e sognava di diventare uno scrittore di teatro, forma d’arte più consona alla mentalità mercantile.
Oggi, oltre al Caffè degli Specchi che è ancora il più borghese della città e richiama un mondo che non esiste più, tenuto in vita artificialmente, è soprattutto il Caffè San Marco a richiamare l’atmosfera della Trieste imperiale, anche se a fondarlo furono degli irredentisti: per Magris è lo spazio della scrittura per eccellenza, aperto a tutte le anime; è un mosaico eterogeneo di stili, dove il tempo si presenta discontinuo e non lineare, e dove tutto sembra esistere contemporaneamente, come in un deposito di relitti della Storia.
Il San Marco è il luogo che forse meglio rappresenta l’essenza di Trieste e la sua peculiare modernità, un limbo che ci dà la sensazione di essere sempre altrove e in cui sopravvive la logica dilatoria della cultura asburgica, la sua tendenza a rinviare continuamente la propria fine, privilegiando l’Essere piuttosto che il Divenire. È un’immagine della vita nella sua complessa e inafferrabile molteplicità. Sembra di vivere ancora nella “Cacania” di cui parla Robert Musil nell’Uomo senza qualità, un mondo eterogeneo, immaginato più che reale, senza frontiere al suo interno, dove tutto è possibile e dove si incontrano le persone più diverse.
Al Caffè San Marco si impara inoltre il disincanto e il relativismo di cui è permeata la città, si prende consapevolezza della transitorietà di tutte le cose, compresa la propria esistenza, una consapevolezza che però genera un desiderio di cogliere l’attimo, di abbandonarsi alle piccole e momentanee gioie dei sensi: anche negli scrittori c’è spesso il bisogno di rimanere ancorati alle cose, con la lucida coscienza della loro provvisorietà, e un vitale edonismo è nel DNA dei triestini, anche come reazione alle tragedie della Storia, che qui si sono abbattute con particolare violenza.
Un altro Caffè molto importante era il Garibaldi, sempre in Piazza Unità, dove, negli anni Venti, si incontravano Italo Svevo, Umberto Saba, Bobi Bazlen, Virgilio Giotti, Silvio Benco e altri artisti e intellettuali triestini: il Caffè rimaneva un centro in cui si produceva cultura e ci si confrontava nel segno di una continuità con il Passato, anche se non c’erano più l’Impero e la sua grande vitalità commerciale. Trieste era diventata uno dei porti dell’Adriatico, non era più la città cosmopolita e ricca di stimoli di un tempo: per questo Joyce l’aveva abbandonata definitivamente nel 1920, scrivendo agli amici che in città dominava ormai una “noia dannata”.
4) Per la sua posizione di una città di frontiera, geograficamente periferica rispetto all’Italia, ma centrale in una dimensione mitteleuropea, Trieste è sempre stata un crocevia di culture, ha accolto le comunità slava, latina e orientale, è sempre stata esposta al costante confronto con l’alterità e a un miscuglio di lingue, religioni, volti, costumi. Questa condizione ha dato a Trieste un’identità, una fisionomia determinata, fissa, specialmente in letteratura, o ha generato piuttosto un’identità instabile, sfuggevole, frammentata che si riplasma in continuazione? Quanto si avverte ancora questa specificità nelle opere letterarie contemporanee?
La fisionomia letteraria di Trieste è molto eterogenea, come il suo paesaggio naturale e umano.
Anche se la città viene spesso ingabbiata in narrazioni artificiali o sentimentali come quelle del “mito asburgico” o della “Trieste italianissima”, in realtà la sua identità è indefinibile a priori.
Trieste rappresenta la quintessenza della frontiera, è inafferrabile, è tutto e il contrario di tutto: è un “terzo spazio”, come direbbe Homi Bhabha, perennemente mutevole e sismico come il suo vento. Si può comprendere nell’ottica della moltiplicazione più che dell’addizione e dell’opposizione.
Proprio questa grande varietà e l’esigenza di ricomporre in unità i frammenti sparsi dell’esistenza e dell’esperienza portano spesso gli scrittori a coltivare rappresentazioni idealizzate della loro città, per reagire alla mancanza di un’identità ben definita e alla nevrosi prodotta da questa mancanza e dalla sensazione di una felicità perduta e di speranze tradite: Enzo Bettiza ha evidenziato il rischio di “irrigidirsi in una visione mitologica, restrittiva, anacronistica”, anche se si tratta di un atteggiamento sempre “ingenuo” e giustificabile, riconducibile al particolare romanticismo di cui, secondo Franco Basaglia, soffrono i triestini, sempre connesso alla loro nevrosi, e al tentativo di risolvere una sofferta lacerazione interiore sul piano sentimentale e in una dimensione epica piuttosto che a livello razionale. Pensiamo all’Irredentismo e al suo “misticismo aggressivo” che nasconde, dietro al mito astratto della nazionalità, la precarietà identitaria e un’esigenza di riconoscimento da parte della comunità nazionale, cancellando le diversità culturali e la varietà etnica.
La scelta di una identità a Trieste non è mai spontanea e immediata, ma richiede spesso il sacrificio di altre identità e una lotta accanita per affermare sé stessi o trovare una sintesi rispetto alle dissociazioni interiori: già Scipio Slataper sottolineava al riguardo che Trieste è “composta di tragedia”.
Nell’Intervista su Trieste, Bobi Bazlen mette in discussione il mito slataperiano della “città crogiuolo” di diverse culture e rileva l’inconsistenza di ogni rappresentazione mitografica che punti a dare un’interpretazione a senso unico della città: Trieste è per lui “una città di mute rinunce e di tragedie inespresse”, con una delle percentuali più alte di pazzie e di suicidi in Europa, una “minima città di provincia”.
Anche per autori come Fabio Doplicher o Daniele Del Giudice che, in Lo stadio di Wimbledon, si mette sulle tracce di Bazlen, Trieste è una città mentale, astratta: le sue rappresentazioni ufficiali non corrispondono alla realtà, ma sono simulazioni, simulacri. Per Doplicher Trieste è la città delle promesse mancate, cassa di risonanza delle proprie malattie interiori.
Indubbiamente, a causa della sua incertezza identitaria, e più di altre città, Trieste riflette, come in uno specchio, l’interiorità degli scrittori, le loro contraddizioni irrisolte; può diventare ‘intransitiva’, ostile, respingente, come nei romanzi di Renzo Rosso.
Gli scrittori sloveni di Trieste, sin da Srečko Kosovel, hanno il privilegio di avere una ‘doppia’ identità, e quindi un punto di vista più completo e realistico sulla città, che mette in luce i conflitti che la percorrono e il senso di oppressione vissuto da una minoranza: penso a Boris Pahor, Alojz Rebula, Vladimir Bartol, Mirošlav Košuta, Dušan Jelinčič.
Nel romanzo Amiche per la pelle di Laila Wadia, del 2007, l’autrice racconta l’intensa amicizia tra quattro donne provenienti dall’India, dalla Bosnia, dalla Cina e dall’Albania, che cercano di integrarsi con le loro famiglie nel contesto della città: Trieste è sempre stata, al di là dei conflitti, un terreno fertile per il confronto e l’integrazione tra le diverse culture, è cresciuta e si è arricchita grazie agli apporti esterni, favorendoli. Anche per gli scrittori che hanno narrato l’esodo istriano la città è una sorta di “Terra Promessa”, benché gli esuli si sentano spesso degli “italiani sbagliati” in una comunità che non comprende il loro dolore.
L’individualismo degli scrittori triestini, segnalato già da Saba, ha contribuito alla varietà dei punti di vista su Trieste che è essenzialmente una “città interiore”: così la concepisce Mauro Covacich nell’omonimo libro del 2017, uno dei più belli e significativi degli ultimi anni.
È impossibile quindi circoscrivere un’identità fissa: Trieste è prismatica, ambivalente, incompiuta, cambia a seconda del punto di vista da cui la osservi, ed è l’espressione di una prospettiva sempre mobile, animata dal desiderio di vedere le altre facce che compongono il prisma, anche se l’incerto equilibrio fra Passato, Presente, Futuro rischia di lasciare irrisolta e indefinita l’identità della città, bloccando ogni sua fuga in avanti. A Trieste sembra che il Passato non passi mai.
5) La presenza di statue dedicate a scrittori moderni e contemporanei è una delle prime cose evidenti al visitatore che arriva a Trieste. Non solo quelle famose di Saba, Joyce e Svevo, ma anche i busti nel Giardino Pubblico, di cui parla anche Claudio Magris in Microcosmi. C’è una necessità di definire una propria identità triestina riconoscendo alla letteratura un ruolo nella sua formazione o è una mossa puramente autocelebrativa e in parte promozionale anche dal punto di vista turistico?
Quando parla dei busti di personaggi illustri della cultura triestina nel Giardino Pubblico, Magris li considera come dei simboli della lotta fra Natura e Cultura, che ha caratterizzato lo sviluppo della Trieste moderna, una città ‘pionieristica’ che, nel giro di due secoli, è passata da cinquemila a oltre duecentomila abitanti: sono busti rassicuranti, testimoniano lo sforzo di costruire dal nulla un mondo nuovo e di esibire una solidità e delle radici che in realtà non esistono. Per lo scrittore bisogna fare attenzione alle narrazioni culturali perché, quando hanno la pretesa di essere totalizzanti, finiscono per cristallizzare e tradire la vera identità della città, chiudendola in sé stessa e in un’immagine autocelebrativa: è un rischio che Trieste corre anche oggi, divisa tra la sua vocazione cosmopolita e il bisogno di circoscriversi gelosamente nel suo particolarismo, nel “museo del sapere tradizionale e sistematico che irrigidisce la vita ed elude il dramma dell’esistenza, inserendo ogni fenomeno nel catalogo e nella classificazione”.
I busti sono espressione, a livello culturale, dello spirito pionieristico che dal 1719, con l’istituzione del Porto Franco, ha animato Trieste.
Non avendo la sicurezza del proprio Passato e delle radici, le élite della città sentono il bisogno di inventare una Tradizione per riscattare il mondo mercantile da una dimensione puramente economica e materiale: si sviluppano così una cultura e una letteratura che assumono in sé i caratteri del paesaggio naturale e umano, creando e condizionando la Storia.
In questo processo molto veloce, la città si trasforma nell’immaginario collettivo in un luogo ideale, con uno sforzo di costruzione dove nulla è scontato: a esso si accompagna la consapevolezza della precarietà di questo sforzo, del senso di vuoto e di autoreferenzialità che si nasconde dietro le apparenze. Allo stesso modo, la scrittura crea una realtà che può sembrare inesistente e che si confronta continuamente con la propria astrattezza.
Indubbiamente la letteratura ha contribuito molto a costruire un’immagine di Trieste, anche se forse i triestini non sono sempre consapevoli della sua importanza e del fatto che tanti italiani e stranieri nutrono nei confronti della città un’autentica passione, alimentata dai suoi scrittori e dalle atmosfere che i loro libri evocano: le statue di Saba, Joyce e Svevo incuriosiscono i visitatori ma interpellano anche quelli che vivono a Trieste e, insieme agli “itinerari” realizzati grazie all’impulso del professor Renzo Crivelli a partire dagli anni Novanta, hanno fatto circolare l’idea del “Parco letterario” che rappresenta una grande potenzialità per una città che da decenni sta cercando un rilancio e forse non ha ancora deciso quale strada percorrere.
Nel Passato ho avuto spesso la sensazione che il mondo letterario di Trieste come anche quello scientifico, pur prestigiosissimi e conosciuti a livello internazionale, fossero dei corpi separati rispetto alla comunità cittadina: una sensazione che oggi ho di meno, perché queste realtà si stanno facendo conoscere sempre di più anche all’esterno, con una diversa strategia comunicativa. L’Università stessa cura molto la “Terza Missione” e incontri di divulgazione che possano superare la cerchia accademica e parlare a tutti.
La candidatura di Trieste a Città della Letteratura Unesco, le iniziative della community “LETS – Letteratura Trieste”, il progetto del Museo della Letteratura e i tanti libri su Trieste che sono usciti negli ultimi mesi testimoniano che ci sono ancora una grande vitalità culturale e un interesse che va coltivato. La letteratura può essere quindi un volano economico: devono crederci anche la Politica e tutta la città, non solo gli operatori del settore.
6) C’è in particolare un luogo letterario che ha piacevolmente scoperto (o riscoperto) durante le ricerche per scrivere questa guida?
Mentre scrivevo Trieste di carta, sono tornato sui luoghi del Richiamo di Alma di Stelio Mattioni, un romanzo in cui un giovane studente insegue una ragazza che appare e scompare misteriosamente per le vie del Colle di San Vito, il nucleo più antico di Trieste, che si sviluppa intorno alla Cattedrale di San Giusto: è un dedalo di strade strette e a volte impervie, un labirinto che alimenta la fantasia di Mattioni e la sua passione per il fantastico come dilatazione dell’esistenza. È una Trieste molto diversa da quella di Piazza Unità, di Piazza Borsa o di Viale Carducci, fatta di palazzi decadenti o disabitati, di vie deserte e silenziose, di spazi vuoti che inquietano ma anche affascinano per tutti i segreti che potrebbero contenere.
Girando in questo quartiere, soprattutto in autunno e in inverno, si ha la sensazione di essere in una bolla spaziotemporale, in una città misteriosa e astratta che ricorda la Praga di Kafka e l’effetto di irrealtà prodotto dai suoi romanzi. In particolare mi affascina il Giardino d’Infanzia che si affaccia su Via San Michele, uno dei vari luoghi dove Alma si presenta all’improvviso: ora è stato risistemato, ma negli anni Novanta, quando ero appena arrivato a Trieste per fare l’università, era in uno stato di abbandono e aveva un’aria decadente che allora, più di oggi, contraddistingueva molti angoli della città, non molto distanti dal centro.
In luoghi come questi, stranianti e un po’ surreali, sembra davvero di entrare in un’altra dimensione, in un lato oscuro e meno prevedibile della città: è un altrove indefinibile e mutevole che suggerisce un altro piano della realtà, oltre quello quotidiano e visibile.
Anche la Chiesa degli Armeni in Via dei Giustinelli, di cui parla Dušan Jelinčič in un racconto dei Fantasmi di Trieste, incastonata tra i palazzi e fuori dai giri turistici più ‘gettonati’, è un luogo affascinante, ispira il senso del mistero: è stata un’oasi di pace per un popolo perseguitato che ha potuto trovare rifugio qui dopo tante peregrinazioni.
Quando a Trieste ci si abbandona a itinerari casuali, si possono fare delle bellissime scoperte: alla città più monumentale si alternano i “cantucci intimi” di cui parla Biagio Marin in Strade e vie di Trieste, dove si aprono “prospettive inattese” e squarci che ti trasportano in tempi e spazi paralleli, compresi fra le pieghe della città.
Paesaggi reali si sovrappongono così a paesaggi mentali: come scrivo nel libro, “Trieste va esplorata senza pregiudizi, abbandonandosi al piacere della varietà e dell’incertezza, lasciandosi andare all’onda delle sensazioni immediate e al fluire del tempo, che modifica continuamente la realtà e ci porta avanti e indietro, senza che ce ne accorgiamo”.
7) Per concludere, c’è una citazione che più di ogni altra sceglierebbe per riassumere Trieste di carta?
La citazione di Claudio Magris che fa da esergo al libro è sicuramente quella che riassume meglioTrieste di carta, un viaggio, quasi esoterico, in una città che forse è soltanto una costruzione mentale, un fantasma, ma che lascia un segno profondo in chi la attraversa: “Crescere a Trieste significava – e significa ancora – accorgersi di vivere in una città di carta, coperta dalla letteratura come l’Impero, in una parabola di Borges, è coperto dalla sua mappa disegnata dai cartografi”.
Il libro
➡ Leggi anche la scheda di Trieste nel Piccolo atlante dei luoghi letterari.