Un titolo che di primo acchito suona enigmatico come la città in cui è ambientato: Utz è l’ultimo romanzo di Bruce Chatwin, un libriccino di poco più di 100 pagine, pubblicato nel 1988. A fargli da sfondo è una Praga claustrofobica dove vive Kaspar Utz, barone decaduto che fa del collezionismo di ceramiche la sua ragione d’essere. Oggetto di una ossessione che rasenta l’idolatria sono circa mille pezzi di porcellane di Meissen, una delle manifatture più raffinate e pregiate del mondo, tutti stipati in un minuscolo appartamento di due stanze: vasi, piatti, boccali di Böttger, bricchi e zuppiere tra fantasie rococò e grovigli di fiori. Il cuore della collezione è però la raffinata selezione di statuette del Settecento, esplosione di forme e colori sugli scaffali dove sfilano arlecchini e pulcinelle, pagliacci e buffoni, e poi dame di corte, pastori, artigiani, tartari, indiani e saggi cinesi.
Devoto all’arte ceramica sin da adolescente, quando rimase ammaliato da una statuetta di Arlecchino modellata dal più grande artista di Meissen, J.J. Kändler, Utz iniziò – grazie alle cospicue eredità – a costruirsi gelosamente, pezzo dopo pezzo, il suo “segreto mondo lilliupuziano”.
Il romanzo si apre col funerale di Utz, la cui storia viene ricostruita a ritroso dal narratore anonimo, un giornalista che sta raccogliendo informazioni per un articolo sulla “malattia del collezionismo” dell’imperatore Rodolfo II, per cui gli viene suggerito di incontrare Utz, descritto come “un Rodolfo del nostro tempo”. Ma la vicenda prende subito una piega inaspettata, si trasforma in una sorta di giallo. Un mistero infatti ci accompagna sin dall’inizio del romanzo, il caso che il narratore cerca di risolvere: che fine ha fatto la preziosa collezione di Utz che sembra essere scomparsa nel nulla?
Nella Praga sovietica
La storia è ambientata nella grigia e malinconica Praga sovietica tra gli anni Sessanta e Settanta, dove il diktat comunista condanna la proprietà privata. Così nel mirino della polizia cade anche la pregiata collezione di Utz che, secondo la legge, non può essere patrimonio di un singolo individuo ma appartiene alla collettività. Utz tuttavia riesce a strappare un accordo: lo Stato avrà sì la sua collezione, ma dopo la sua morte. E, sì, acconsente che ogni pezzo venga fotografato e numerato, purché poi sia lasciato in pace fin quando non sarà più di questo mondo.
Così quando una squadra di funzionari si introduce nel suo appartamento profanando con grinfie incaute la sacralità della sua collezione, arrivando persino a frantumare alcuni pezzi, Utz sopporta con malcelata pazienza e cova frattanto un risentimento che sfocerà in un imprevedibile epilogo. Infatti, quando, dato l’estremo saluto al proprietario, i funzionari si presentano finalmente a requisirne la collezione, trovano gli scaffali completamente vuoti. Tutti i pezzi… svaniti. Perduti? Chissà. Nessuno sa dirlo. O meglio, nessuno sembra saperlo. Perché carpendo una parola qua e un’altra là, nel narratore si insinua strisciante il sospetto che a far sparire la collezione sia stato un ultimo distruttivo atto di ribellione del beffardo barone.
Utz, come aveva dichiarato, non avrebbe proprio tollerato di vedere intrappolate le sue delicate figurine nelle teche di un museo, come animali in gabbia in uno zoo:
“In un museo l’oggetto muore – di soffocamento e degli sguardi del pubblico –, mentre […] il collezionista appassionato restituisce all’oggetto, gli occhi in armonia con la mano, il tocco vivificante del suo artefice.”
Psicopatologia del collezionista
Attraverso questi fragili tesori, Chatwin ci parla dell’ossessione che spinge l’uomo a raccogliere oggetti (chissà quanti accumulatori seriali avrà conosciuto nei tempi in cui lavorava a Londra da Sotheby’s), del desiderio di possesso che sfocia nella psicopatologia del collezionismo, del rapporto mistico che si instaura con le cose materiali. Questo nonostante gli oggetti ci sbattano in faccia la finitezza della vita umana, inerti testimoni quali sono del nostro decadimento, come dice Utz:
“le cose sono meno fragili delle persone, sono lo specchio immutabile in cui osserviamo la nostra disgregazione. Nulla ci invecchia più di una collezione di opere d’arte”.
Ma in un mondo che va disgregandosi, dominato sempre più da interessi materialistici, l’oggetto d’arte, in questo caso la porcellana venerata dal barone, è anche “l’antidoto contro la decadenza”. Utz respinge lo squallore del mondo là fuori e coccolando le sue statuette le sublima in un’esperienza estetizzante. Il culto della bellezza e l’esercizio del gusto diventano atti di resistenza contro la decadenza di un mondo ciecamente utilitarista.
Città alchemica
Dietro a tutta questa vicenda c’è una Praga che
“…era ancora la più misteriosa delle città europee, dove il soprannaturale era sempre possibile.”
La capitale boema è spennellata tra le righe di Utz. Non sono poi molti i riferimenti precisi ai luoghi della città, alcuni sono addirittura fittizi. Compare il profilo delle guglie della chiesa di Týn e la chiesa di San Nicola dove il barone prende moglie, fanno capolino le cariatidi giganti che sorreggono gli architravi di “qualche palazzo barocco o rococò”, guizzano le pstruh (trote) servite nei vecchi ristoranti intorno a piazza San Venceslao… Ma la praghesità di Utz si assorbe anche dalle atmosfere saturnine, dalle suggestioni alchemiche, dalle credenze ebraiche e dagli aneddoti leggendari evocati. Una storia così non avrebbe potuto aver luogo altrove, a partire dalla menzione all’eccentrico imperatore Rodolfo II che indirettamente innesca la vicenda. È per mettersi sulle sue tracce, infatti, che il nostro narratore arriva a Praga e viene indirizzato dal barone Utz.
Rodolfo II di Asburgo nel Cinquecento aveva trasferito la corte dell’Impero da Vienna a Praga. Chiuso nel castello sull’alto della collina, preda della febbricitante bramosia del collezionista, aveva messo su una raccolta prodigiosa di opere d’arte e curiosità provenienti da tutte le parti del mondo, custodite gelosamente in una kunstkammer dove amava perdersi in contemplazione. Rodolfo II era anche un insaziabile curioso, si dedicava all’arte e alle scienze, comprese quelle occulte, e patrocinava artisti e studiosi. Da lui nasce il mito del Vicolo d’oro, infilata di case basse e colorate oggi assediata da turisti (dove abitò per breve tempo anche Kafka), che fece costruire per le sue guardie, ma dove secondo la leggenda stavano rintanati i suoi alchimisti intenti a sperimentare ricette per elisir di lunga vita e pietre filosofali.
“Ma io volevo vedere lo stesso il tetro palazzo-fortezza, lo Hradčany, quello scapolo schivo – che parlava italiano con le sue amanti, spagnolo col suo Dio, tedesco con i cortigiani e ceco, raramente, con i contadini ribelli – trascurava per intere settimane gli affari del suo Sacro e Romano Impero e si isolava con i suoi astronomi (Tycho Brahe e Keplero erano i suoi protetti), oppure cercava la pietra filosofale con gli alchimisti, o discettava con i dotti rabbini sui misteri della Cabala”.
Il piccolo appartamento dove abita Utz si trova in via Široká 5 e affaccia proprio sull’antico cimitero ebraico, nella zona dove un tempo si trovava il ghetto, un “alveare fatto di passaggi segreti e stanze dimenticate così vividamente descritto da Meyrink” che agli albori del Novecento era stato totalmente demolito, salvando solo sinagoghe, cimitero e il fascino di miti sacrileghi. Uno di questi ci viene raccontato da Utz, mentre siede con il narratore su una panchina del vecchio cimitero, tra foglie di aceri e piccioni borbottanti. La storia è quella del rabbino Loew, vissuto durante il regno di Rodolfo II, a cui vennero attribuiti poteri soprannaturali. Compiendo un arcano rituale, aveva infuso la vita a un impasto di fango della Moldava dando origine a un servo gigante, il Golem. Ma la creatura aveva iniziato a crescere a dismisura arrivando persino a uccidere alcune persone. Avendone ormai perso il controllo, il rabbino fu costretto a disfarlo e ritramutarlo in un ammasso di fango, poi nascosto nell’attico della sinagoga Vecchia-Nuova che ancora svetta, col suo aspetto inquietante, nella Città Vecchia.
Tra realtà e fiction
Che Chatwin amasse mescolare buona dose di finzione nei suoi racconti di viaggio è risaputo, né lui l’ha mai nascosto, affermando spesso di preferire il verosimile al vero. Anche Utz nasce da un’esperienza autobiografica.
Nel 1988, quando scrive il romanzo, Chatwin è gravemente malato, consunto dall’Aids che lo ha in parte paralizzato. Privo della possibilità di compiere quei viaggi che erano stati il nutrimento della sua vita, attinge ai ricordi e rievoca una vicenda di vent’anni prima. Dopo aver lasciato il lavoro presso la casa d’aste Sotheby’s di Londra, nel 1967 Chatwin aveva visitato Praga. Qui aveva conosciuto Rudolph Just, un grande collezionista di porcellane che era morto poco tempo dopo senza lasciare tracce della sua collezione, un mistero che aveva ispirato il romanzo. Per decenni non se n’era saputo più nulla, finché recentemente, nel 2011, grazie anche ad alcuni spunti presenti nel libro, la collezione del vero Utz è stata ritrovata in un caveau in Svizzera, restituita agli eredi (che del romanzo di Chatwin erano del tutto ignari) e poi battuta all’asta per una cifra milionaria. Si è così chiuso il cerchio: dalla realtà alla fiction, e ritorno.
Spunti per luoghi da visitare
- A Praga, il cimitero ebraico su cui affaccia la casa di Utz e la sinagoga Vecchia-Nuova nel cui attico, secondo la leggenda, si trovano i resti del Golem.
- A Praga, il castello in cui visse Rodolfo II d’Asburgo.
- A Vienna, il Kunsthistorisches Museum: la Kunstkammer di Rodolfo purtroppo è andata in parte perduta, depredata durante la guerra dei Trent’anni. Un nucleo è stato ricostituito ed è esposto al Kunsthistorisches Museum di Vienna.
- A Meissen, il Meissen Museum: alle porte di Dresda, il museo dedicato alla ceramica pregiata di cui è fanatico Utz, la prima porcellana dura ad essere prodotta in Europa su modello di quella cinese grazie agli esperimenti dell’alchimista Johann Friedrich Böttger che nel 1707 ne scoprì la formula. Da allora fu una rivoluzione per tutta la produzione della ceramica europea.
E’ forse il più prondo scritto del 900 . C’è tutta la nosra storia e le grandi debolezze di noi occidentali colti discendenti del mondo della cabala e dei miti del mindo semitico . Augusto Forti