Duecentocinquantasei pagine per oltre cento autori che sfilano tra strade, caruggi, palazzi e salite di Genova in un tripudio di citazioni che punteggiano il reticolo letterario fitto e tortuoso della città: Genova di carta di Alessandro Ferraro (Il Palindromo, 2020) va ad arricchire collana Le città di carta della casa editrice palermitana. Su questo sito avevamo già intervistato gli editori del Palindromo e gli autori di Torino e Milano di carta.
Genova capitale italiana della poesia del Novecento? Forse. Sarà il lettore a stabilirlo, districandosi tra i versi di Guido Gozzano, Dino Campana e Camillo Sbarbaro, tra i ricordi di Eugenio Montale e le suggestioni di Giorgio Caproni; ma anche tra le opere di narrativa di Giovanni Arpino, Mario Soldati, Antonio Tabucchi, Maurizio Maggiani… fino alla parola musicata. D’altronde siamo a Genova: e se la canzone d’autore può essere considerata una forma di letteratura, non si possono non menzionare Fabrizio De André e Gino Paoli, Luigi Tenco e Bruno Lauzi, Umberto Bindi e i più recenti Ex-Otago.
Come ciascun libro della collana Le città di carta, il best of dei luoghi letterari genovesi è condensato nella mappa pieghevole ed estraibile che si trova allegata al libro, pronta per accompagnarci nell’esplorazione a piedi della città.
Parliamo quindi di Genova di carta con un’intervista all’autore Alessandro Ferraro.
1) Gozzano, Sbarbaro, Montale, Caproni, Sanguineti… Nella tua Genova di carta la poesia prevale quantitativamente sulla narrativa. È una tua scelta, dettata da interessi personali, o effettivamente è la città ad avere una particolare “vocazione poetica”? E che mi dici della “vocazione musicale”, che pure in parte esplori nel libro, tanto fertile da aver dato vita a una scuola cantautorale così ricca e di qualità?
I poeti che hai nominato stanno seduti a pieno titolo, ben comodi, nel canone del Novecento, sono fra i maggiori del secolo scorso, e sono stati i più assidui e originali osservatori di Genova; questo basterebbe per comprendere la mia scelta. Non li ho scomodati troppo, non li ho tirati per la giacchetta perché la Genova di carta è di ognuno di loro. Nella Litania di Caproni, il compendio della città che è sempre di qualcosa o di qualcuno, fra la «Genova d’Oregina, / lamiera, vento, brina» e la «Genova dei casamenti / lunghi, miei tormenti. / Genova di sentina. / Di lavatoio. Latrina» c’è la Genova dal «nome barbaro. / Campana Montale Sbarbaro». Non potevo, quindi, non intestare a loro, e a Gozzano e a Sanguineti, i capitoli del libro, non potevo non riconoscergli il ruolo che hanno avuto nell’interpretazione della città, non far risuonare la loro voce, per necessità e fortuna in una polifonia di voci di altri poeti e di tanti narratori (Soldati, Arpino, Tabucchi…). Pare siano 123 gli autori che cito, lo ha certificato il «Corriere della Sera», io non li avevo mai contati. Confesso, inoltre, che al senso della proporzione (la Genova letteraria è grandiosa grazie ai grandi poeti) ho abbinato l’amor proprio, giacché nella vita ho a che fare principalmente con la poesia, come studioso e come lettore; come persona poi, figuriamoci: devo molto di ciò che sono a Montale e a Caproni, ma dicendo questo sì che li scomodo.
Rispondo all’altra domanda. Ciò che a Genova è accaduto con la poesia è accaduto, in maniera ancora più concentrata e celebrata, con la canzone d’autore (la migliore, nonché una delle più insistentemente urbanistiche, è genovese), tuttavia in questo côté battuto non mi ci addentro troppo perché cerco di distinguere la canzone d’autore dalla poesia. Alla polifonia di cui ti parlavo, però, hanno contribuito Lauzi, Tenco, Bindi e altri ancora, così nella Genova di carta ci sono, per esempio, Sant’Ilario e Via del Campo, la città attraversata dalla passeggiata della Dumenega di De André, e ci sono il «soffitto viola» con gli alberi «infiniti» al posto delle pareti e la «vecchia soffitta vicino al mare con una finestra a un passo dal cielo blu» di Paoli. Una «litania infinita».
2) Penso alla Firenze letteraria, in cui ricorrono frequentemente episodi legati alla Resistenza e all’alluvione del 1966; alla Torino letteraria, che respira il clima socio culturale attorno agli scioperi e ai quartieri operai della Fiat, o alla Milano letteraria che si confronta con la crescita economica del dopoguerra e il conseguente impatto sul tessuto urbano. Ci sono alcuni temi, eventi storici o aspetti della città preponderanti che emergono dalle opere, in questo caso soprattutto poetiche, della Genova di carta?
Prima citavo i cantautori, ora cito (come faccio nel libro) Un morto a Genova, il rap in versi con cui Alberto Arbasino ha messo, il 14 luglio 2001, nero – un nero funesto – su bianco il presagio dell’uccisione di Carlo Giuliani, datata 20 luglio 2001, durante il G8: «l’aspettativa è grande / per IL MORTO A GENOVA! / Altro che le canzoni di Tenco, / di Lauzi, di De André! altro che / il “noi” di Paolo Villaggio, / o i ghigni del Gabibbo! / Un morto che dia un vero senso / alle pulsioni profonde / e alla “vanitas” superficiale, / al desiderio di ostentare virtù varie, / alla brama del presenzialismo e dell’esserci!» In Genova di carta la storia è presente, pressante nella poesia ma soprattutto nella narrativa. Il Novecento narrativo ci ha consegnato testimonianze e rielaborazioni del disagio o del fervore sociale di inizio secolo, delle guerre mondiali, del regime fascista, dell’esperienza resistenziale, del piano regolatore che ha lacerato e asportato brani (salvati in letteratura) di tessuto cittadino, e ancora ha registrato con sensibilità le tensioni degli anni Settanta, l’ammazzatoio della Diaz, le alluvioni colpose e il Ponte Morandi, il cui crollo segna l’avvio, angosciato ma fiducioso, del libro, quanto la ricostruzione dà slancio al finale, che è un po’ quello che è accaduto all’inizio (agosto 2018) e alla fine del mio lavoro (febbraio 2020). Arrivo a Genova con Lo smeraldo di Soldati in mano e col timore di trovare l’apocalisse, di non riuscire a raccogliere i pezzi della città e le forze per la passeggiata, poi grazie alla letteratura reagisco, ricostruisco e, dopo quasi due anni e oltre duecento pagine, nel guardare il nuovo ponte d’acciaio che prende forma e si profila sul cielo, vedo, grazie alla compendiosa nonché prodigiosa Litania, la «Genova di ferro e aria», la «Genova che si riscatta. / Tettoia. Azzurro. Latta» e la «Genova bianca e a vela» che mi pare una definizione perfetta per il progetto disegnato da Renzo Piano, anzi a essere più precisi «Genova bianca e a vela, / speranza»…
3) Qual è l’autore che a livello personale leghi più di ogni altro a Genova?
Giorgio Caproni, com’è evidente dalle mie risposte ma non solo per Litania dove «Genova» si ripete quasi cento volte, mentre Roma (la città dove oramai, in quegli inizi degli anni Cinquanta, il poeta abitava e dove sarebbe morto nel 1990) non è mai nominata e Livorno (la città in cui nacque nel 1912) rima, al culmine del componimento, con «partenza senza ritorno», quel verso-presagio che precede il verso-postulato «Genova di tutta la vita». Genova esercitò su Caproni (che qui si trasferì intorno ai dieci anni, e trascorse “solo” gli anni della formazione) il potere del primo amore, quello che incontri all’improvviso, che s’interrompe troppo presto, della passione irrazionale che diventa uno strumento di conoscenza, che dà la misura a tutte le cose, fino ad apparire come l’ideale da non tradire che inesorabilmente tradiamo. L’ho fatta spiccia, e sentimentale – come mi è capitato in altre occasioni ma non nel libro – perché mica è semplice spiegare e sintetizzare l’ineguagliabile rapporto che legò Caproni e di conseguenza (non scontata) la sua poesia a Genova: ci ha consegnato versi in cui l’amore per la città è rimasto come interrogazione, intuizione, affetto, ricordo, lamento, rimorso, appunto litania, e vero e proprio inno.
4) C’è in particolare un luogo letterario che hai piacevolmente scoperto (o riscoperto) durante le ricerche per scrivere questa guida?
Ti potrei dire che la città l’ho riscoperta «tutta» e «intera», com’è in Litania, e già che ci sono insisto su Caproni e sul suo legame con Genova, perché non c’è nei versi “genovesi” del poeta (che non intese scrivere versi genovesi) una descrizione fedele, un bozzetto folcloristico o un omaggio lacrimevole, anzi, i significati s’addensano e i luoghi si deformano, gli spazi si stressano e suggeriscono soluzioni sorprendenti, come nel caso del monumentino di Enea, con Anchise e Ascanio in piazza Bandiera che, nel Passaggio d’Enea, si fa simbolo di un’intera generazione post-bellica in difficoltà, col passato in rovina e il futuro incerto, o nel caso della funicolare che, nelle Stanze della funicolare, va sì dalla Zecca al Righi ma sfonda il tracciato reale e si trasforma in un volo sulla città e in un viaggio dall’utero materno al post mortem, per non parlare della famosa trovata di andare in paradiso con l’Ascensore, che nella realtà da piazza Portello arriva “solo” al belvedere Montaldo. In che modo, con questa letteratura fra le mani, si può non fermarsi con altri occhi perfino davanti ai luoghi più consumati dal passaggio? E riscoprirli. E pensa che lo stesso ascensore lo prendono Montale, nei panni del signor M., e Tabucchi (il suo, nel Filo dell’orizzonte, è un mezzo di trasporto a metà, non casuale, fra la funicolare e l’ascensore) e il belvedere Montaldo è il «balcone spalancato su Genova» dal quale «si potrebbe», suggerisce Sbarbaro, «aspettare l’Amore», nonché il punto in cui la città appare come «grande tartaruga con i tetti a scaglie grigie» nell’Ufficio delle cose perdute, la canzone di Paoli. Una vera e propria scoperta, invece, è quello che chiamo “ponente poetico”, quello agli antipodi, in tutti i sensi, della Boccadasse di Montalbano, quello delle industrie della val Polcevera e delle vie “mai sentite” che esploro con poeti “mai sentiti”, quello ignorato dai foresti e snobbato da chi vive nel centro di Genova sentendosi al centro del mondo mentre sta in un angolo ottuso.
5) A proposito di “luoghi letterari”, il libro si chiude con un tuo dialogo con due intellettuali, Enrico Testa ed Ernesto Franco, in cui viene espresso anche un po’ di scetticismo nei confronti dei cosiddetti “luoghi letterari”. Cosa pensi in proposito? Secondo te è la “delusione a imporsi” sul lettore quando visita un luogo immaginato attraverso le pagine di una poesia o di un romanzo? Il luogo letterario è un “surrogato del testo” che finisce per passare in secondo piano e diventare una mera attrattiva di turismo?
A Franco e a Testa (con la complicità del corochinato, il tipico vermut genovese) ho chiesto risposte sul modo in cui un luogo diventa letterario, sul motivo per cui a Genova la poesia “prevalga” sulla narrativa, su quale luogo letterario fosse a loro più caro. Poi a Testa, conoscendolo bene e conoscendo la sua ritrosia davanti alla definizione di “luoghi letterari”, ho chiesto ulteriori spiegazioni, convinto che mettere in discussione la definizione che definisce il libro stesso fosse stimolante. Così è, credo, per il lettore che, arrivando all’ultima frase di Testa che problematizza ma insieme pacifica la lunga passeggiata, potrebbe avere voglia di ripercorre Genova di carta e sicuramente di farsi un’opinione propria sulla Guida letteraria della città. Io credo nei “luoghi letterari”, sia quando deludono il lettore-passante, il viandante (omaggio il Ceccardo), sia quando lo esaltano. Ciò che m’importa è il circolo virtuoso di inviti incrociati: è sempre un bene quando una poesia, un romanzo, un racconto invitano il lettore a visitare un luogo, o quando uno scorcio, una statua o una stradina invitano il passante a leggere un autore. Fermo restando che, da un lato è impossibile ogni volta camminare da soli o guidare chi ami e, dall’altro lato, mi spaventa il turismo di massa e bruto, non vedo per quale motivo a Caricamento ci possano sguazzare i banchi argentei di turisti diretti all’Acquario e non soffermarsi i gruppi di viandanti organizzati che hanno animo d’inoltrarsi, per citare Montale, nella «selva di ferrame e alberature» del porto, nello «spiro / salino che straripa / dai moli» o nell’«oscura primavera di Sottoripa». E interrogarsi, con Tabucchi: «C’è qualcosa di diverso da altri luoghi qui, cosa sarà mai? Forse “lo spiro salino che straripa dai moli”?».
6) Per concludere, c’è una citazione su tutte che più di ogni altra sceglieresti per riassumere la tua Genova di carta?
Alcuni versi della poesia di Enrico Testa A Edoardo Sanguineti riassumono il senso di Genova di carta ribadendo la necessità della poesia, e acquisiscono ulteriore valore nel globo borioso e bradicardiaco in cui ci è toccato di abitare: «i versi, se vuoti di ogni albagia / e ridotti quasi a patiti patemi del pathos, / servono ancora. / A poco ma servono / anche se a chi e a cosa non so». Per rimanere più specifici, e segnatamente genovesi, in questa stagione inferma e claustrofobica oltre che alla poesia mi affiderei al mare, il liberatore e purificatore, quindi cito una lettera di Gozzano, il poeta torinese che per prescrizione medica e per piacere soggiornava a Genova (Pegli, Cornigliano, San Giuliano e San Francesco d’Albaro, Sturla, Vernazzola, Sant’Ilario): «Sono spettinato, barbuto, vestito d’una maglia rozza e di una giubba logora […] ma c’è il mare di fuori! La mia camera è squallida, incalcinata alle pareti, con un arredo miserrimo, ingombro qua e là del mio bagaglio in disordine: libri, scatole, barattoli, abiti, biancheria […] Ma c’è il mare di fuori: e sono felice!»